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Emily Brontë, Cime tempestose e il legame invisibile tra sorelle

 Il 19 dicembre 1848, a Haworth, nello Yorkshire, moriva Emily Brontë. Aveva solo trent’anni.

Non era una figura pubblica, non cercava il successo, non amava la mondanità. Eppure, con un solo romanzo, avrebbe lasciato un segno indelebile nella letteratura mondiale.

Ricordare Emily Brontë in questa data non significa soltanto commemorare una morte precoce, ma interrogarsi su un paradosso affascinante: come una donna così riservata abbia potuto scrivere una delle storie più violente, appassionate e disturbanti dell’Ottocento.


Emily era la seconda delle tre sorelle Brontë sopravvissute all’infanzia: Charlotte, Emily e Anne.
Di tutte, era la più schiva. Preferiva la compagnia della brughiera, degli animali, del vento che attraversava i campi attorno alla canonica di Haworth. La società le stava stretta, le conversazioni mondane la infastidivano, e persino il successo letterario — che pure arrivò, seppur tardi — non sembrava interessarle.

Charlotte stessa la descrisse come una creatura profondamente autonoma, quasi indomabile, legata a un mondo interiore che pochi potevano davvero comprendere.

La nascita di Cime tempestose


Cime tempestose
(Wuthering Heights) viene pubblicato nel 1847, sotto lo pseudonimo maschile di Ellis Bell.

Come per le sorelle, anche per Emily la scelta di un nome maschile era una forma di protezione: il mondo letterario dell’epoca guardava con sospetto - quando non con aperto disprezzo - alle scrittrici.

Il romanzo nasce in un contesto domestico, quasi chiuso: la casa di Haworth, la vita ripetitiva, l’orizzonte della brughiera. Ma ciò che prende forma sulla pagina è tutto tranne che contenuto.

Cime tempestose non è un romanzo d’amore nel senso tradizionale. È una storia di ossessione, distruzione, legami che sopravvivono alla morte, di una natura che non consola ma travolge. Heathcliff e Catherine non sono eroi romantici: sono forze elementari, come il vento che scuote le colline dello Yorkshire.

Alla sua uscita, il romanzo scandalizzò molti lettori. Fu giudicato brutale, immorale, eccessivo. Solo col tempo si comprese che Emily Brontë aveva scritto qualcosa di radicalmente nuovo.

Ciò che rende Cime tempestose ancora così moderno è la sua ambiguità morale.
Emily non offre spiegazioni, non chiede empatia, non giustifica i suoi personaggi. Li lascia esistere, come esistono le tempeste: senza scopo, senza redenzione.

Forse è proprio questo che rende il romanzo così legato alla sua autrice. Emily Brontë non scrive per piacere o convincere, ma per esprimere una verità interiore, anche a costo di risultare incomprensibile.

Le sorelle Brontë: un laboratorio creativo

Emily non era sola.
Il rapporto con Charlotte e Anne fu fondamentale, non solo emotivamente ma anche dal punto di vista creativo.

Da bambine, le sorelle avevano inventato mondi immaginari complessi - Angria e Gondal - popolati da personaggi, storie, poesie. Scrivere non era un atto individuale, ma un’esperienza condivisa, quasi necessaria alla sopravvivenza.

Eppure, le differenze erano nette:

  • Charlotte era più razionale, narrativa, attenta alla struttura e al pubblico.

  • Emily era poetica, istintiva, assoluta, poco interessata al giudizio altrui.

  • Anne, spesso dimenticata, aveva uno sguardo lucido e morale, sorprendentemente moderno.

Questo equilibrio fragile - fatto di sostegno, confronto e silenzi - permise a ciascuna di trovare la propria voce.

Dopo la morte di Emily, Charlotte si fece custode della sua memoria.
Fu lei a difendere Cime tempestose dalle critiche più dure, a spiegare che quella violenza narrativa non era mancanza di controllo, ma scelta consapevole.

Oggi Emily Brontë è considerata una delle voci più originali della letteratura inglese. Il suo unico romanzo continua a essere letto, reinterpretato, adattato. E continua a dividere.

Perché leggiamo ancora Emily Brontë?

Forse perché Emily non cercava di essere amata.
Non cercava di insegnare, né di rassicurare. Scriveva come si vive: senza compromessi.

Il 19 dicembre, ricordare Emily Brontë significa ricordare che la letteratura non nasce sempre dal rumore, ma a volte dal silenzio, e che proprio da lì può nascere qualcosa di indimenticabile.

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