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The Bear - fra caos, ferite e redenzione. Una serie che ti prende a morsi.

Ci sono serie che guardi, e poi ci sono serie che ti si attaccano addosso. The Bear è una di quelle. Inizia come una storia di cucina, ma finisce per raccontare il dolore, la pressione, la fatica di essere umani. E lo fa con una sincerità spiazzante. La cosa bella? è che non mi sarei mai aspettata che mi facesse questo effetto.

Ho iniziato The bear per la prima volta due anni fa, sotto suggerimento di mio zio (che è anche una delle mie persone preferite al mondo) che ha fatto della ristorazione la sua vita e che è stato capace di trasmettermi questo amore da tempi non sospetti. Lo stesso che mi ha regalato quel libro che nel penultimo episodio si vede sul comodino della casa della madre di Carmy, ovvero Kitchen Confidential di Anthony Bourdain, perché, testuali parole: chi ama la cucina non può non averlo nella sua libreria. Il problema è sorto già con la visione del primo episodio. Chi ha visto la serie sa. Il primo episodio è caos, è urla, è immagini che sembrano scollegate fra loro, è rumore, è panico, è ansia. Ho sempre definito questo primo episodio (che è stato il primo per l'appunto, ma non l'ultimo) claustrofobico, tanto da aver deciso di non continuare. Se quella era la premessa non avrei retto. 

Poi, come spesso accade, gli ho dato una chance (due anni dopo) per caso non per scelta. Ed è avvenuto quello che chiamo effetto Ted Lasso ovvero, me ne sono innamorata - sì, il primo episodio resta sempre claustrofobico - ma andando avanti ho scoperto tanto altro dietro quel caos, e meno male aggiungerei. 

Nb: per chi non lo sapesse Ted Lasso è un'altra serie tv che amo così tanto da essere diventata una delle mie serie del cuore. Anche con lei non c'è stato un colpo di fulmine, tanto da averla abbandonata. Ho deciso successivamente di darle una chance e ad oggi è una delle mie serie tv preferite. 

L'ho terminata ieri, forse è ancora presto per parlarne, ma sento anche che è il momento giusto, proprio perché le emozioni sono ancora al sangue (userò molte metafore culinarie in questo articolo).

The Bear è una serie che ti prende a morsi, come un servizio del sabato sera quando sei sotto di tre tavoli e hai finito la salsa madre. Ti lascia senza fiato, ma quando finalmente ti siedi – metaforicamente o letteralmente – ti accorgi che qualcosa ti è cambiato dentro.

La cosa incredibile di questa serie è che riesce ad essere profondamente umana partendo da una cucina. Un luogo che spesso immaginiamo come solo gastronomia, ma che qui diventa teatro di traumi, redenzioni, lotte interiori e relazioni disfunzionali. In una cucina non si cucina solo: si sopravvive, si ama, si urla, si implode. E The Bear riesce a raccontare tutto questo senza filtri, senza costruzioni artificiali, senza sentimentalismi gratuiti. Solo verità. E tanto rumore – che spesso è solo dolore travestito.

Non so se l'ho vissuta con più intensità perché amo questo mondo, nonostante ne conosca i retroscena e sappia che - soprattutto l'alta cucina - è un mondo davvero tremendo. Avete presente un allenamento per entrare nell'esercito? Ecco, credo che a livello psicologico le due esperienze si possano paragonare. E non esagero. A proposito di esagerazione, The bear non è una serie esagerata, la cucine funzionano davvero così. Da persona che ci ha lavorato - tengo a precisare che nel contesto dove ho lavorato io, la situazione era diversa perché lo erano le circostanze - è come se avessi fatto un'esperienza immersiva in questa serie. 


Ogni personaggio ha un mondo dentro. Carmy non è solo uno chef geniale: è un uomo rotto, pieno di cicatrici invisibili, in perenne lotta con se stesso. Carmy ha paura della felicità, tende ad auto sabotarsi e vi farà venire voglia di prenderlo a pugni, probabilmente perché sarà come vedersi allo specchio (o almeno, sotto alcuni aspetti per me lo è stato). Sydney è ambizione e fragilità, Richie è rabbia e tenerezza mal indirizzata (ed è senza dubbio il mio personaggio preferito). Tina è resistenza e rinascita. E poi c’è Marcus, con il suo modo silenzioso e poetico di cercare la perfezione, ma solo per far felice sé stesso.

Ah, e poi c'è il tempo. 

Qualcuno starà pensando, in che senso? Nel senso che il tempo è uno dei personaggi di The bear, ma non uno secondario, il tempo è uno dei protagonisti, se non IL protagonista.

E in mezzo a tutto questo caos – che non è mai confusione, ma vita vera – c'è la regia. Claustrofobica, immersiva, a tratti quasi documentaristica. Episodi come quello in piano sequenza (S1E7) o “Forks” (S2E7) sono piccoli capolavori di scrittura e direzione. E poi la fotografia: uno spettacolo, credetemi.

Ma The Bear è anche, profondamente, una serie sulla comunità. Su quella famiglia non di sangue che nasce dentro le cucine, forgiata a fuoco tra padelle, servizi infiniti, urla e silenzi condivisi. E che come tutte le famiglie ha due risvolti della medaglia. 

Come dice Carmy: “Una delle verità per chi lavora in cucina è che non si è mai da soli.” Ed è vero. È una delle frasi che mi è rimasta più dentro. In cucina si può anche odiare chi hai accanto, ma non puoi farne a meno. Perché ogni piatto che esce è il risultato di una catena di mani, teste, cuori e anche qualche stomaco annodato o di qualche pianto per via della tensione accumulata... 

Questa serie racconta cosa vuol dire affidarsi all’altro, anche quando tutto dentro di te urla di non farlo. Racconta come ci si salva a vicenda senza nemmeno accorgersene. Come Richie, che trova finalmente il suo posto nel mondo solo quando qualcuno glielo mostra. La storia di Richie è talmente bella che meriterebbe una serie a sé. Come Tina, che non si arrende e si trasforma. Come Sydney, che lotta per essere vista, e non solo ascoltata.

E poi c’è quella scena che, se ci penso, mi si stringe qualcosa dentro, un mix fra tenerezza e commozione.

Siamo all’episodio del matrimonio di Tiffany, l’ex moglie di Richie. La figlia ha paura. Si rifugia sotto il tavolo. E allora i Bear - quella strana, disfunzionale, meravigliosa famiglia - si infilano lì con lei.

Nessuno le dice che non deve avere paura. Nessuno la costringe a uscirne.

Le stanno accanto. Le danno lo spazio per esserlo, impaurita.

E poi, uno alla volta, iniziano a dirle (e a dirsi) le loro paure.

Un momento semplice, quasi sussurrato, eppure fortissimo. Perché lì si capisce che in The Bear non si cresce superando la paura, ma guardandola insieme. Rimanendoci dentro. Senza vergogna.

Perché a volte basta qualcuno che si siede con te sotto il tavolo.


E poi c’è quella scena nella cella frigorifera.

Il momento esatto in cui Carmy si blocca. Chi l’ha vista sa. È un crollo, ma anche una rivelazione. In quel momento Carmy capisce – o forse noi capiamo per lui – che la sua ossessione per la perfezione è diventata una prigione. Che la cucina, quella vera, quella che ama, gli è scivolata dalle mani.

Ha inseguito la forma, ha dimenticato il sapore.

Per questo The Bear colpisce così tanto: perché non parla solo di cucina. Parla di come possiamo perderci anche in ciò che amiamo, se non impariamo a lasciarci aiutare. Se non smettiamo, ogni tanto, di voler fare tutto da soli.

The bear è una serie profondamente introspettiva, va vista con una buona dose di coraggio perché non è una serie semplice, o la ami o la odi.

The bear è una serie che ti schiaffeggia e poi ti abbraccia. 

Ci sono episodi incredibilmente ansiogeni ed altri che potrei definire lenti, fatti solo di sguardi, poche parole, o solo di parole. 

È una serie sul fallimento - e Dio solo sa quanto sia importante parlare del fallimento, soprattutto nella nostra società - ma anche sul perdono. Sul silenzio, ma anche sul calore umano.
Sul mettere a posto i piatti, ma soprattutto le persone.

Ovviamente è composta da un cast pazzesco e da comparse ancora più pazzesche!

Ho finito The Bear ieri, ma ce l’ho ancora addosso. Come l’odore di cucina dopo un turno lungo.


È una serie che ti sporca, ti stanca, ti spezza… ma che poi ti fa sentire meno solo.

E in un mondo che urla ricette perfette, The Bear ci ricorda che la bellezza sta nel caos. Nelle mani sporche. Nel sapore che resta anche quando il piatto è finito. Anche quando la cucina è vuota. 

Perché alla fine è tutto lì: ogni secondo conta, e quando arriva il momento giusto, bisogna solo lasciarsi andare. Let it rip.







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