Ci sono libri che non si leggono soltanto: si abitano.
Agata del Vento è uno di questi.
Un romanzo che mi ha presa per mano e portata lontano, tra le pieghe più profonde e autentiche della Sicilia, in un tempo che non esiste più — o forse sì, solo nascosto meglio. Un tempo dove il confine tra realtà e magia è sottile come un soffio di vento.
È una storia che parla con voce antica, eppure sorprendentemente attuale. Una voce che, a mio avviso, è profondamente e intimamente femminile.
La storia
Agata è una ragazza siciliana, figlia di una terra aspra, misteriosa, dura e bellissima. Fin dalle prime pagine si avverte il suo legame con la natura, con il non detto, con il potere del sentire profondo.
Il romanzo segue il suo cammino di crescita e di ribellione, in un mondo che fatica ad accogliere donne che sfuggono alla norma. Accanto a lei, un coro di voci femminili la accompagna e la definisce: donne complici, antagoniste, ma sempre significative.
Ci sono le colleghe pescatrici, la madre Concetta – dura e ostinata –, e soprattutto Minica, la nonna di Agata, una presenza silenziosa ma fortissima.
C’è Marisa, innamorata dell’uomo sbagliato; c’è Lucia, spettatrice della propria vita – destino comune a tante donne dell’epoca; c’è Za’ Teresa, custode di segreti e complice di scoperte che segnano il percorso della protagonista.
Anche gli uomini hanno un ruolo importante, seppur spesso marginale rispetto al cuore pulsante femminile del romanzo. Dal padre adorato emigrato in Argentina, ai fratelli – Salvatore, duro e ruvido, Rosario più sensibile e timido – fino a Pietro, Tanu, Francesco e Bastianu, uomini diversi, che lasciano ognuno un’impronta nel destino di Agata.
Le Majare
Nel cuore pulsante del romanzo c’è la figura delle Majare siciliane: donne sagge, forti, spesso isolate, spesso temute.
Guaritrici, levatrici, erboriste, interpreti di segni e sogni, erano custodi di un sapere antico, popolare, non accademico. Per alcuni, una benedizione. Per altri, una minaccia. Troppe volte silenziate, accusate, bruciate. Mai davvero dimenticate.
Francesca Maccani restituisce loro voce e dignità, intrecciando storia, folklore e spiritualità con una delicatezza rara. È un tributo potente a quelle donne il cui dono fu, troppo spesso, confuso con una colpa.
A fine libro l’autrice cita i lavori di Macrina Marilena Maffei, che l’hanno ispirata come una vera madeleine:
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La danza delle streghe. Cunti e credenze dell'arcipelago eoliano
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Donne di mare
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La maga del velo. Incantesimi, riti e poteri del mondo magico eoliano
Una narrazione che accarezza e colpisce
Lo stile di Maccani è evocativo, ma mai pesante. Poetico, ma nitido. Non cerca effetti speciali: arriva dove deve.
Agata è un personaggio forte e fragile, ribelle e sensibile, capace di incarnare una dualità spesso negata alle donne: forza e dolcezza, dubbio e fede, dolore e speranza.
Durante la lettura mi sono sentita trasportata in un tempo remoto, ma anche in uno spazio intimo e condiviso. È un romanzo che consiglio a tutti, davvero. Ma se posso permettermi: lo consiglio soprattutto alle donne.
Non per escludere gli uomini — questa storia può parlare a chiunque — ma perché dentro queste pagine c’è una voce antica che riconosceremo.
Una voce che ha parlato alle nostre madri, alle nostre nonne. A quella parte di noi che, a volte, abbiamo smesso di ascoltare.
È un libro che sa guarire. Come le Majare: con le mani, con le parole, con l’amore.
Ma chi erano davvero le Majare?
Chi mi segue da un po’ sa quanto io sia affascinata dal folklore del Sud, e le Majare sono tra le figure più potenti e misteriose della nostra tradizione popolare. Diffuse soprattutto in Sicilia, ma anche in Calabria, Puglia e Basilicata, erano donne che vivevano ai margini — geograficamente e socialmente — e possedevano un sapere profondo.
Conoscevano le erbe, le preghiere, i riti. Preparavano filtri, impacchi, tisane. Scioglievano il malocchio, guarivano “u scantu”, accompagnavano parti e lutti. Il loro sapere era spirituale, naturale, intuitivo.
E quindi: scomodo. Perché non codificato, non maschile, non controllabile. Le Majare venivano spesso viste con sospetto, accusate di superstizione, persino di eresia.
Eppure, nelle campagne, il loro aiuto era prezioso. Vivevano sospese tra rispetto e paura.
Lo stesso Giuseppe Pitrè, grande etnologo siciliano, le studiò a fondo. Scriveva:
“Non chiamatele impostore. Le Majare di Sicilia non si fanno pagare. Guariscono solo per amore.”
Durante la pandemia, la fotografa Roselena Ramistella ha viaggiato per la Sicilia alla ricerca delle ultime guaritrici, raccogliendo le loro storie nel progetto “The Healers / Le Guaritrici”, ancora in corso.
I loro strumenti? L’aglio per il mal d’orecchio, l’ortica per i geloni, l’olio e il sale contro gli influssi negativi, le erbe spontanee per infusi e unguenti. Le preghiere sussurrate, mai dette ad alta voce.
Le parole si tramandano di madre in figlia, solo due volte l’anno: la notte di Natale e a San Giovanni, il 24 giugno.
E forse sì, oggi le Majare sono rimaste poche. Ma leggendo Agata del vento, viene da pensare che quel sapere non si sia mai spento davvero. È lì, nascosto nel vento, nelle mani, nelle storie. Aspetta solo di essere riconosciuto.

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