Sono stata al cinema a vedere L’amore che ho, il nuovo film di Paolo Licata sulla vita di Rosa Balistreri. E posso dirlo senza esagerare: sono uscita dalla sala con un nodo in gola. È uno di quei film che ti restano addosso, che non riesci a scrollarti nemmeno il giorno dopo. Anzi, forse te li porti dentro per sempre.
Rosa Balistreri… la conoscevo, ma non così bene. Ho sempre cantato Ahi ahi ahi moru moru moru senza sapere chi ci fosse dietro. Sapevo che era una cantante siciliana, certo, ma non avevo mai approfondito davvero. Dopo questo film, però, mi è sembrato quasi di averla incontrata. Di averle sentito il fiato sul collo. Di aver vissuto un pezzo del suo dolore.
Perché chiamarla “cantante” è quasi riduttivo. Rosa era una forza della natura, una donna fatta di ferite, rabbia, poesia e resistenza. Una che ha vissuto una vita durissima e ha trovato nella musica l’unico modo per non esplodere. O forse per esplodere nel modo più giusto.
Le sue non erano canzoni da sottofondo. Erano urla, memorie, atti d’accusa. Raccontava la miseria, la violenza, il carcere, l’abbandono. Ma anche l’amore, l’orgoglio, la Sicilia. Lei stessa diceva: “Io non sono una cantante. Sono un’attivista con la chitarra”. E guardando questo film, non possiamo che crederle.
Rosa non era una cantante, Rosa desiderava essere una cantastorie, la prima cantastorie donna, e lo è stata davvero.
Il film: uno specchio ruvido ma necessario
L’amore che ho è un film ruvido, essenziale, diretto. Paolo Licata non addolcisce nulla. Racconta Rosa com’era: cruda, dolorosa, senza filtri. Le attrici che la interpretano — soprattutto Anita da ragazza, interpretata da una bravissima Anita Pomario — sono fenomenali. Non imitano, ma incarnano. La fotografia è scura, polverosa, viscerale. La colonna sonora fa da ponte tra passato e presente: le sue canzoni, spesso solo accennate, arrivano dritte al cuore. Quelle parole, quei versi urlati al cielo, sembrano usciti da un’altra epoca, ma parlano ancora di oggi.
Guardando il film ci si accorge che Rosa non è solo una figura del passato: è un pezzo vivo di memoria collettiva. È la voce di chi non ha voce. E sempre per dirlo a modo suo: lei era la cantante dei disgraziati, dei dimenticati.
Una vita che sembra un romanzo
Rosa nacque a Licata nel 1927, in una famiglia poverissima. A 15 anni scappò da un padre violento, poi visse tra Palermo, Napoli, infine Firenze. Una donna che ha fatto di tutto: la domestica, la lavandaia, la cuoca. Negli anni ‘50 fu condannata per l’omicidio del marito. Sei anni di carcere, una colpa che ancora oggi resta ambigua, intricata di dolore e sopravvivenza. Ma fu proprio dopo quel buio che Rosa trovò una nuova voce — letteralmente. Quella voce roca, ferita, autentica che avrebbe fatto tremare le fondamenta di chi l’ascoltava.
Negli anni ’60 la sua vita cambiò davvero quando fu notata da Dario Fo e Franca Rame. Loro, maestri del teatro politico, videro in Rosa una forma di arte popolare purissima. La invitarono nei loro spettacoli. Rosa non recitava, ma viveva. Non interpretava, ma raccontava con il corpo, con la gola, con la pancia. Era teatro, ma era anche realtà. Ogni nota era un atto d’accusa, ogni canzone un pezzo di verità restituita al mondo.
Oltre all’artista e all’attivista, L’amore che ho ci mostra anche Rosa come madre e nonna. Una figura complessa, fragile, a volte assente. Il rapporto con la figlia fu teso, segnato da distanze e ferite non rimarginate. Ma il legame con il nipote — da cui nasce anche il romanzo che ha ispirato il film, scritto da Luca Torregrossa — diventa un ponte. È attraverso gli occhi di questo nipote che ci avviciniamo a Rosa da un’altra prospettiva: più intima, più tenera, più umana. Il suo amore, anche quando faticava a mostrarsi, era comunque un fuoco che bruciava dentro.
Le amicizie “alte”: Camilleri, Guttuso, Buttitta
Rosa era analfabeta (sappiamo attraverso il film che ha imparato da sola a leggere e a scrivere) ma circondata da intellettuali che la adoravano. Andrea Camilleri la stimava profondamente. Ignazio Buttitta, grande poeta dialettale, la chiamava “la voce del popolo”. Renato Guttuso ne dipinse l’anima con parole e colori. Tutti vedevano in lei qualcosa di potente e irripetibile: una donna che non aveva studiato, ma conosceva il dolore del mondo. E lo sapeva raccontare.
Cosa ascoltare per cominciare
Se dopo il film vi siete chiesti “da dove partiamo per conoscere Rosa?”, ecco qualche canzone da cui iniziare. Preparatevi: sono scosse emotive.
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"Mi votu e mi rivotu" – struggente e ossessiva, parla di un amore che non dà pace.
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"Cu ti lu dissi" – malinconica, dolce e dura allo stesso tempo.
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"Terra ca nun senti" – un grido d’accusa verso una terra che non ascolta chi soffre.
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"La ballata del carcere" – autobiografica, diretta, senza compromessi.
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"Quannu moru" – una delle più intense: la morte vista non con paura, ma con dignità.
Perché raccontarla oggi
Guardare L’amore che ho oggi è un atto politico. È scegliere di ascoltare una donna che è stata zittita troppe volte. È riconoscere il valore della memoria, della musica come denuncia, del dolore come atto creativo. Rosa Balistreri non è solo una figura del passato: è ancora qui, in ogni ingiustizia taciuta, in ogni voce che lotta per essere ascoltata.
Se potete, andate a vedere questo film. Poi sedetevi, chiudete gli occhi, e ascoltate Rosa. Vedrete che non vi lascia più.
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