Ieri sera, dentro il Teatro Al Massimo di Palermo, è successa una cosa meravigliosa: il tempo si è fermato — o meglio, è tornato indietro.
Sul palco: paillettes, luci scintillanti e un’energia che ti travolge fin dal primo “Mamma Mia”.
Il "ABBA DREAM TRIBUTE SHOW" non è solo un concerto. È una dichiarazione d’amore a quella musica che, a distanza di cinquant’anni, continua a far ballare tutti: dai fan della prima ora a chi ha scoperto gli ABBA grazie a “Mamma Mia!”
Se non hai mai visto Mamma Mia! non possiamo essere amici mi dispiace.
Questo articolo funziona un po' come il gioco dell'oca, se sei arrivato qua, ferma la tua pedina e torna indietro, vai su Netflix e premi play su Mamma Mia! poi torna qua.
Due ore di pura gioia
Lo show inizia puntuale alle 21:00 (che per me che amo essere a letto entro mezzanotte come Cenerentola non è affatto un aspetto da sottovalutare) e va avanti per due ore di pura nostalgia felice.
I costumi sono fedeli all’epoca d’oro, tra pantaloni a zampa e glitter ovunque. Ma la vera magia è nell’atmosfera. Davanti a me, un gruppo di amici sulla cinquantina si è scatenato senza risparmiarsi, cantando ogni parola, ballando come se non ci fosse un domani.
Io e la mia migliore amica eravamo lì, avvolte da boa colorati che perdevano piume a ogni giro di danza, ridendo, ballando, stringendoci nei pezzi più lenti e lasciandoci trascinare nei cori più energici.
È stato uno di quei momenti che sai già, mentre lo vivi, che finirà dritto nella tasca dei ricordi preziosi. Quelli che tornano nelle chiacchiere future, accompagnati da un “ti ricordi quella sera?”
La band e le voci regalano una performance impeccabile, che non cerca di imitare gli originali, ma li celebra con rispetto e passione.
Dal primo pezzo, al gran finale, è impossibile restare fermi. C’è chi canta a squarciagola, chi si commuove, chi improvvisa passi di danza nel corridoio.
Questo show non è nostalgia sterile, è una festa. E lo capisci da come si guardano le persone mentre battono le mani a tempo. In quei momenti, nessuno pensa alla settimana che ricomincia, alla spesa da fare, alle mail non lette.
Ci siamo solo noi, gli ABBA e una gran voglia di ballare via tutto.
Se il ABBA DREAM TRIBUTE SHOW passa nella tua città, regalati il biglietto. Porta chi vuoi. O vai da solo. Non importa.
Quel “Dancing Queen” finale è terapia. E non serve prescrizione medica.
Sono un frammento di cultura pop che ha attraversato generazioni e continenti, trasformando la musica in un linguaggio universale fatto di glitter, malinconia e voglia di vivere.
Formatisi a Stoccolma nei primi anni '70, Agnetha, Björn, Benny e Anni-Frid (da cui le iniziali: ABBA) hanno venduto oltre 400 milioni di dischi, scritto alcune delle canzoni più riconoscibili della storia del pop e lasciato in eredità un immaginario che continua a ispirare, raccontare, unire.
Per me non sono mai stati solo “un gruppo da karaoke del sabato sera” anche se... mio Dio, datemi un karaoke con gli ABBA adesso!
Nel mio caso, sono anche un pezzo importante del mio primo romanzo. La loro musica è parte della storia, dei personaggi, dei loro pensieri — perché diciamolo: è impossibile scrivere di sentimenti, desideri, dolori e speranze senza, prima o poi, inciampare in una canzone degli ABBA.
Mini-playlist sentimentale
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Dancing Queen – Per ballare, anche da soli, anche in pigiama
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The Winner Takes It All – Per piangere con classe
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Waterloo – Per ricordarci che perdere con stile è un’arte
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Chiquitita – Per sentirci consolati anche nei giorni storti
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Our Last Summer – Per viaggiare con la mente (e un po’ col cuore)
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I Have a Dream – Perché sì, ancora ci crediamo
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Slipping Through My Fingers – Da ascoltare quando ci scappa qualcosa tra le mani
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Super Trouper – Per brillare anche quando ci sentiamo spenti
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Lay All Your Love On Me – Da cantare a squarciagola e basta
Björn Ulvaeus (che ha scritto il testo) e Agnetha Fältskog (che la canta) si erano appena separati dopo 8 anni di matrimonio.
E no, non è un caso se questa è la canzone più intensa e personale del loro repertorio.
Björn ha sempre dichiarato di aver scritto il testo “senza pensare a lei” ma… dai. È impossibile credergli del tutto. Anche lui ha poi ammesso che Agnetha ha dato al brano un'emozione che andava ben oltre le parole.
La cantava come se fosse la sua verità. E forse lo era.
Il risultato è una ballata devastante, elegantissima, quasi teatrale: la storia di una donna che accetta la fine di un amore, sapendo che il mondo applaude chi se ne va vincente… ma che lei resterà con la dignità del perdente.
Nonostante il tono intimo, Björn e Agnetha hanno sempre mantenuto rispetto e affetto reciproco. Lei ha detto:
“Quando ho ascoltato il demo, ho pianto. Ma era una canzone bellissima. E mi fidavo.”
E oggi, The Winner Takes It All è ancora una delle canzoni più amate e reinterpretate al mondo.
(Compresa da Meryl Streep, che nel film Mamma Mia! ha fatto venire i brividi a mezzo pianeta cantandola su quella scogliera.)
Quando Waterloo conquistò l’Europa (e cambiò l’Eurovision per sempre)
Si è concluso da poco L'Eurovision che ha visto Lucio Corsi rappresentare l'Italia con il suo tributo a tutti quelli che volevano essere dei duri ma che non sono nessuno. Ma nel 1974, gli ABBA erano ancora una giovane band svedese con una buona manciata di sogni, vestiti improbabili e un brano pronto a farsi notare: “Waterloo”.
Il palco? L’Eurovision Song Contest, che quell’anno si teneva a Brighton, Regno Unito.
Il pubblico? Europeo, un po' scettico, abituato a ballad lente e sobrie.
Poi arrivarono loro: Agnetha, Björn, Benny e Anni-Frid, vestiti di paillettes, stivali a zampa e melodie che sembravano uscite da una festa glam-rock.
E spiazzarono tutti.
Con Waterloo vinsero l’Eurovision e divennero immediatamente famosi in tutta Europa.
Ma non solo: la loro vittoria segnò un punto di svolta per il concorso stesso, che da evento un po’ formale e prevedibile iniziò a trasformarsi in quello spettacolo musicale pazzo, colorato e internazionale che conosciamo oggi.
“Dopo di loro, l’Eurovision non fu più lo stesso. E neanche il pop europeo.”
dicono ancora oggi i critici musicali, e la Svezia si difende molto bene ogni anno.
“Waterloo” è stata votata nel 2005 come la miglior canzone nella storia dell’Eurovision durante un sondaggio speciale per il 50° anniversario.
Il brano era originariamente in svedese, ma gli ABBA decisero di portarlo in inglese proprio per conquistare il pubblico europeo. Missione compiuta direi.
Nel testo della canzone, “Waterloo” non è (solo) una battaglia famosa.
È la resa sentimentale definitiva.
“Waterloo – I was defeated, you won the war”
Tradotto: ho perso, tu hai vinto. Mi arrendo all’amore. Sono tua prigioniera (ma consenziente).
La cantante paragona la propria resa all’amore alla resa di Napoleone Bonaparte nella celebre battaglia di Waterloo del 1815, quando il grande imperatore francese fu definitivamente sconfitto dalle truppe alleate guidate dal Duca di Wellington.
Solo che qui il “generale sconfitto” è lei, e la guerra non è fatta di cannoni ma di sentimenti.
Ha resistito, ha lottato… ma ora cede.
L’idea di prendere un evento epocale e trasformarlo in un modo brillante di parlare di una relazione è ironica, teatrale, e originale — perfetta per spiccare su un palco come l’Eurovision.
In più, funziona benissimo: tutti sanno cos’è Waterloo, tutti conoscono l’immagine della disfatta.
Usarla per raccontare una resa d’amore? Geniale.
Waterloo non è solo una canzone orecchiabile. È una piccola operetta pop, con tanto di storia, travestimento e messinscena.
Ultima curiosità che forse non sai...
Gli ABBA hanno lasciato il palco nel loro momento di massimo splendore.
Hanno detto no a un tour mondiale multimilionario, non per capriccio, ma per una rara forma di rispetto: “Non volevamo deludere il pubblico con qualcosa che non fosse all’altezza del nostro nome.”
In un’epoca in cui si tende a spremere tutto fino all’ultima nota, questa scelta suona rivoluzionaria.
Hanno scelto la memoria, la dignità, la qualità.
E forse è anche per questo che oggi, a distanza di oltre quarant’anni, l’emozione per quelle canzoni è ancora intatta.
Perché Dancing Queen non è solo una hit.
Perché The Winner Takes It All non è solo una ballata triste.
Perché quegli abiti pazzi, quelle armonie precise, quei cori a due voci femminili non sono mai invecchiati.
E quindi sì, forse è vero: un tributo è anche un po’ un risarcimento poetico.
Per quello che non abbiamo mai potuto vivere dal vivo. (E che io per ragioni di età non avrei comunque potuto vedere).
E per quello che, come il concerto di ieri sera, ci rimette addosso piume (vere o simboliche) e sorrisi larghi come un ritornello.
In conclusione? Grazie ABBA.
Per le lacrime ben piazzate, per i cori liberatori, per le paillettes interiori.
E per averci insegnato che, alla fine, la vita è un musical e noi siamo il cast principale — piume comprese.
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