“Marta storta ci viveva e aveva imparato a guardarlo con la testa piegata, il mondo. Ma la vecchia del parco l’aveva confusa: con le lumache e il profumo di soffritto e la luce in camera da letto e quelle carezze che l’avevano costretta a ricordare che c’è chi può camminare dritto, perché nel suo, di mondo, ci sono mani che odorano di buono e che ti spostano i capelli dalla faccia quando non fai che guardarti i piedi.”
Un pomeriggio d'inverno, freddo da spezzare le ossa, Bina si ritrova sola. Ha ottantatré anni e aspetta suo nipote al parco del Cinghio, un quartiere da cui è meglio tenersi alla larga ai margini di una cittadina perbene. Marta, che di anni ne ha venticinque, e che al Cinghio è cresciuta imparando che il mondo è storto e non lo si può aggiustare, la osserva dalla finestra: la vede farsi rigida su una panchina sfondata, il naso gocciolante, un berretto rosa calato sugli occhi spauriti. Decide di offrirle un tetto per la notte. Poi per la notte dopo e per quella dopo ancora. Marta finisce così per prendersi cura di Bina, e intorno a lei, a proteggere quaranta chili di ossa e grinze, si stringono gli abitanti dell'intera palazzina. Poche strade più in là, Fabio viene preso a pugni: ha sgarrato con la persona sbagliata ed è nei guai, grossi guai. Fabio è il nipote di Bina e, mentre Marta prepara il letto per la nonna, lui bussa alla porta di Genny, un'ex prostituta in grado di raccogliere i cocci altrui senza fare domande. Bina e Fabio vivono giorni sospesi, in un luogo duro e sconosciuto, nell'attesa che qualcosa accada. Qualcosa accadrà. E il destino rimescolerà il mazzo, distribuendo ai giocatori nuove carte. Quei giorni freddi si faranno via via più caldi dentro le palazzine di appartamenti rattoppati: tra coperte rimboccate, il rumore del caffè che sale nella moka, il profumo del sugo e una carezza sulla fronte, Marta, Bina, Fabio e Genny scopriranno che dietro ogni abbandono, nascosti sotto ogni solitudine, sopravvivono sempre la forza di amare e il bisogno di prendersi cura l'uno dell'altro.
Non è semplice parlare di questo libro, Ci sono mani che odorano di buono è una storia dolorosa ma anche di speranza, è una storia di morte ma anche di rinascita, è una storia fatta di contrasti che poi è un po’ come la vita.
Il romanzo inizia con Bina, un’anziana signora che attende qualcuno al parco, ma quel qualcuno non arriva e allora Marta che la osserva a lungo decide di fare qualcosa per lei, rompe la sua attesa ospitandola a casa sua, non sa ancora che Bina diventerà per lei prima un’amica, poi una nonna ed infine una parte di sé. Ho trovato in questo gesto di Marta non solo la voglia di riscatto, ma anche un gesto che nonostante le incertezze si è rivelato salvifico per entrambe, per motivi diversi.
Bina però aspettava Fabio quel giorno, suo nipote, mentre lui veniva inghiottito dallo schifo del quartiere che l’ha visto nascere e crescere e dalla quale aveva deciso di scappare e di farlo con sua nonna, ma non può, non ci riesce, non con quel viso spaccato a metà e il fiato corto, ma scappa lo stesso e si rifugia da Genny, ex prostituta che ha cambiato la sua vita rimanendo sempre nello stesso posto ma avendo incontrato persone diverse sul suo cammino. Genny accoglie Fabio, come Marta accoglie Bina, e i due impareranno a guarirsi reciprocamente le ferite.
E intorno a loro conosceremo altri personaggi, tutti marchiati dallo stesso destino ma con la voglia di farcela e sperare ancora, nonostante tutto.
Un detto turco dice che la casa dove nasciamo è il nostro destino, e questo libro mi ha fatto inevitabilmente pensare alla sua veridicità, tutti i personaggi sono legati visceralmente alla realtà dove sono nati, e tutti cercano di salvarsi, capendo che da soli è impossibile.
E allora scopriamo che Marta ha bisogno di Bina che sa di buono, di sugo fatto in casa e di cura, di Benny che è cresciuto con lei e l’ha sempre protetta come una sorella ma amata come qualcosa di più, di Anna che da quel posto è scappata ma che al richiamo di aiuto della sorella non si tira indietro, di Lubjia che ricama il suo nome e di Gianna che le sottolinea frasi sui libri per esprimerle i suoi sentimenti.
Bina ha bisogno di Marta che le dà un tetto sopra la testa e la lascia cucinare le lumache, di Benny che quelle lumache gliele porta in quantità, di Fabio che vuole portarla in Germania per darle una vecchiaia serena che di guai ne ha già passati tanti.
Benny ha bisogno di Marta, della sua pelle per poterla accarezzare e delle sua labbra per poterle baciare, e ha bisogno di Bina che le ricorda Celeste, la nonna che non c’è più è che l’ha amato come un figlio.
Genny ha bisogno di Maurizio che le ha dato un lavoro diverso da quello che le faceva congelare la pelle e l’anima, di Fabio che la vede davvero, che la chiama per nome, che la ama non solo per capriccio.
Anna ha bisogno del bambino che porta in grembo e che le ricorda che ce l’ha fatta, del suo lavoro, della sua casa lontana dal Cinghio, da quel posto che l’ha portata a scappare e ad odiarsi per questo.
Lubjia ha bisogno di Maria perché nessuno si prende cura di lei, ha bisogno di Gianna, ha bisogno d’amore.
Gianna ha bisogno dei libri che le zittiscono quella voce nella testa, quella che non la fa mai dormire.
E infine c’è Fabio che ha bisogno di Bina anche se non riesce a dirlo, perché nessuno si è preso cura di lui come ha fatto sua nonna, e ha bisogno di Marta che non conosce ma che imparerà a fare, e di Genny che gli chiede di restare e lui decide di farlo, di non scappare.
Tutti abbiamo bisogno di qualcuno, di qualcosa, di una speranza.
«Siamo fatti della stessa pasta, buoni a niente. Ma forse in due qualcosa la impariamo a fare.»
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